E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.
(Salvatore Quasimodo)
Di fronte alla barbarie e alla violenza della guerra, le cetre dei poeti oscillano lievi e tristi, mute e impotenti. Non è tempo di poesia quello che i condannati a morte della Resistenza raccontano ai loro cari, attraverso le proprie lettere, in quei seicento giorni che vanno dall’8 settembre del ’43 al 25 aprile del ’45. É tempo invece di azione, come scrisse Franco Antonicelli nella prefazione alle “Lettere dei condannati a morte della Resistenza Italiana, 8 settembre 1943-25 aprile 1945” a cura di Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli, Einaudi (ultima ristampa con introduzione di Gustavo Zagrebelsky, 2005) “sono azioni che ne aprono altre, che si trasferiscono dai morenti ai superstiti, con la loro eccezionale elevatezza morale, con il loro complesso significato politico e storico, col peso stesso, grave, delle sofferenze umane.” Quelle lettere sono scritte da persone di diversa età, uomini e donne di diverso orientamento politico, lavoratori, studenti, operai, intellettuali, casalinghe, chiamati ad una scelta in un momento tra i più drammatici della storia d’Italia. Sono lettere rivolte a genitori, fratelli, sorelle, fidanzate, amici, scritte da chi sapeva della propria condanna a morte. Una volta che esse da private sono diventate pubbliche, hanno acquisito la forza della testimonianza, e dunque sono rivolte a noi, facendoci superare il ritegno e il pudore che ci ponevano domande quali “perché entrare nei loro affetti? Con quale diritto si rendono pubblici i loro sentimenti?” Le lettere, pur nei diversi accenti, e oltre la commozione, ci parlano di libertà, giustizia, uguaglianza, democrazia, fratellanza, amore, beni insopprimibili per i quali si può rischiare tutto, anche la vita; da esse trapela un ansia per un’Italia migliore, che si manifesta sia in quelli che erano animati da forte tempra morale e ideologica, sia in quelli meno preparati politicamente. I valori a cui si richiamano sono alla base della Repubblica e della Costituzione, e, opportunamente richiamati, sono più che mai attuali in un Italia dalla fragile memoria e in stato di profonda crisi morale.
(Da Frammenti dalle lettere di condannati a morte della Resistenza a cura di Tonino Sitzia di EquiLibri )