Non è certo semplice affrontare una tragedia come quella accaduta a Lampedusa, ultimo tragico atto di una lunga serie, senza scadere nella retorica, senza lasciarci trascinare dal sentimento, che pure in questi frangenti ha pieno diritto di esprimersi.
Proviamo orrore e rabbia, soprattutto perché questi fatti accadono da troppo tempo per potersi nascondere dietro il facile alibi del “non sapevamo”. Sappiamo, sappiamo eccome, e lo sappiamo nuovamente in questi difficili anni in cui anche gli italiani hanno ripreso ad emigrare non più per scelta, ma per necessità. Pur non potendo mettere i fenomeni sullo stesso piano, chi di noi non ha uno o più amici lontani perché costretti a cercare altrove quello che l’Italia non riesce più a garantire? Non voglio parlare delle abnormi cifre di vite affondate nel nostro mare, perché non voglio che l’arida statistica faccia dimenticare che dietro ognuno di quei numeri che stiamo mettendo in fila c’era un nome, un volto, una storia, una speranza, un’umanità che ci accomuna a prescindere da qualunque altra considerazione.
L’episodio di Lampedusa mi ha ricordato un murale che ho fotografato qualche anno fa in occasione di una gita con amici ad Orgosolo. Era una giornata fredda d’inverno e minacciava pioggia, il cielo era grigio, e uscendo da una viuzza stretta e un po’ buia, ci siamo ritrovati improvvisamente davanti a questa meraviglia. Nella sua tragica bellezza la considero, oggi, un omaggio di rispetto per gli uomini, le donne e i bambini che ieri notte hanno trovato la morte. Il titolo “Siamo tutti clandestini” rimanda a un sentimento ben preciso del suo autore: la solidarietà che non deve mai venire meno, la capacità di accogliere chi nella disperazione si aggrappa a qualunque mezzo per raggiungere i nostri porti, prima tappa per la ricerca di una vita migliore. Siamo tutti clandestini, ne sono convinta, e lo saremo fino a che non saremo capaci di cambiare le cose.
Il quadro che ha ispirato questo murale è il famosissimo “La zattera della Medusa“, una pittura ad olio del francese Théodore Géricault, esponente della cultura figurativa romantica, che realizzò l’opera tra il 1818 e il 1819. Il fatto di cronaca che lo aveva ispirato risaliva a un episodio avvenuto qualche anno prima: il naufragio di una fregata, la Meduse, che trasportava una delegazione francese verso la colonia senegalese di Saint Louis. E le circostanze, per quello che si sa, sono tragicamente simili al naufragio del barcone di Lampedusa: la Meduse, infatti, trasportava circa 400 persone e naufragò a causa dell’impatto su una secca. Una zattera di fortuna accolse quanti non avevano trovato posto sulle scialuppe e fu da queste ultime trainata, fino a quando qualcuno tagliò la fune e i circa 150 naufraghi sulla zattera furono abbandonati a loro stessi e alla furia del mare. Alla nave che prestò loro soccorso non arrivarono almeno 135 uomini.
Non conosco la data esatta del murale di Orgosolo, che ritengo recente e presumibilmente del toscano Francesco del Casino (o di un suo seguace), insegnante delle scuole medie orgolesi che alla metà degli anni ’70 coi suoi alunni diede vita a una straordinaria stagione creativa. Lo spunto di partenza fu l’anniversario della Liberazione del 1975. Il dipinto francese e il murale orgolese sono figli della stessa sensibilità per la cronaca che vede protagonisti esseri umani: affrontano con linguaggio diverso, ma medesima partecipazione ai fatti, un evento tragico al quale non si sentono estranei, nella misura in cui ogni dramma (come ogni gioia) di un essere umano ci appartiene. E sono al tempo stesso un richiamo alle responsabilità individuali e collettive davanti a ciò che accade quando la storia presenta il conto.
Anna Pistuddi
Alta sui naufragi
dai belvedere delle torri
china e distante sugli elementi del disastro
dalle cose che accadono al disopra delle parole
celebrative del nulla
lungo un facile vento
di sazietà di impunità
Sullo scandalo metallico
di armi in uso e in disuso
a guidare la colonna
di dolore e di fumo
che lascia le infinite battaglie al calar della sera
la maggioranza sta la maggioranza sta
recitando un rosario
di ambizioni meschine
di millenarie paure
di inesauribili astuzie
Coltivando tranquilla
l’orribile varietà
delle proprie superbie
la maggioranza sta
come una malattia
come una sfortuna
come un’anestesia
come un’abitudine
per chi viaggia in direzione ostinata e contraria
col suo marchio speciale di speciale disperazione
e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi
per consegnare alla morte una goccia di splendore
di umanità di verità
per chi ad Aqaba curò la lebbra con uno scettro posticcio
e seminò il suo passaggio di gelosie devastatrici e di figli
con improbabili nomi di cantanti di tango
in un vasto programma di eternità
ricorda Signore questi servi disobbedienti
alle leggi del branco
non dimenticare il loro volto
che dopo tanto sbandare
è appena giusto che la fortuna li aiuti
come una svista
come un’anomalia
come una distrazione
come un dovere